Briciole di Tardoantico (solo per chi non lo conosce
ancora…)
Sed doles quod dudum florentissima repente
occiderit. Verum hoc nobis commune non solum cum hominibus, sed etiam cum
civitatibus, terrisque ipsis est.
Nempe de Bononiensi veniens urbe a tergo Claternam, ipsam Bononiam,
Mutinam, Rhegium derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurrebat
Placentia, veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apennini
inculta miseratus, et florentissimorum quondam populorum castella considerabas,
atque affectu relegebas dolenti. Tot igitur semirutarum urbium cadavera,
terrarumque sub eodem conspectu exposita funera non te admonent unius, sanctae
licet et admirabilis feminae, decessionem consolabiliorem habendam; praesertim
cum illa in perpetuum prostrata ac diruta sint: haec autem ad tempus quidem
erepta nobis, meliorem illic vitam
exigat?
Ambrogio, Epistula XXXIX, 3
Il passo che abbiamo collocato in epigrafe è tratto da
un'epistola nella quale Ambrogio, vescovo di Milano, rimprovera l'amico
Faustino di essersi lasciato annientare moralmente dalla morte della sorella e
di essersi sottratto alle responsabilità del vivere rifugiandosi in luoghi
impervi. In questo passo egli descrive le miserevoli condizioni delle città
dell'Emilia da lui attraversate, ormai ridotte a cumuli di macerie:
riconosciamo a colpo d'occhio Bologna, Modena, Reggio e Piacenza, ma si fa
menzione anche ad altri centri più piccoli, ridotti nella medesima condizione
di "cadaveri di città semidistrutte". Ambrogio indica chiaramente che
la morte è destino comune agli esseri umani e alle città, quindi anche alla
sorella di Faustino, definita sancta et admirabilis. Si tratta di un
celebre motivo, un vero e proprio topos,
che tornerà ad esempio nel XVI del Paradiso
dantesco, quando Cacciaguida dirà al suo discendente che "le cittadi
termine hanno" (v. 78). Un passo come quello ambrosiano può ai nostri
occhi connotare un'intera epoca, darci il sapore di un tempo di rovina e di
disfacimento che affiora nell'immaginario di tutti noi quando sentiamo parlare
di Tardoantico: la caduta dell'Impero, la fine di un mondo, miseria, disordine,
guerre, invasioni... Forse proprio per questo motivo inconfessato del
Tardoantico poco si parla nella scuola. A molti sembra di vivere un'altra
"caduta del'Impero": immigrati giovani e baldanzosi scendono
infreddoliti dalle "carrette del mare" spesso con un sorriso che disarma,
fanno quasi sfoggio di una capacità di vivere con poco e di procreare in
allegria che noi sembriamo aver perso, si rendono indispensabili lavorando di
notte e accudendo i nostri anziani sempre più soli e disprezzati... un giorno
pretenderanno di condividere le posizioni di comando con gli Europei o, peggio,
se ne approprieranno con la forza. Les grands Barbares blancs di Paul
Verlaine hanno oggi la pelle scura… Impressioni del vivere quotidiano, fantasmi
di paure che mai si renderanno concrete? L'uomo vive anche di questo e ne fa
vivere la letteratura. Ambrogio, malgrado il desolante panorama che attraversa,
non si rassegna, esorta l'amico a tornare alla vita e alla lotta sostenuto
dalla fede. Ambrogio, morto nel 397, forse credeva ancora ad una risurrezione in extremis di Roma. Qualche anno dopo
la grande invasione dell'inverno 405-406, quella che di fatto mette fine
all'Impero d'Occidente, Rutilio Namaziano intraprende un viaggio nella
disperazione e nell'amarezza, lasciando Roma alla volta della Gallia, passa di
rovina in rovina viaggiando per mare lungo la costa perché non può nemmeno
percorrere l'antica via Aurelia, ormai impraticabile: il suo De reditu ha ispirato anche un recente
film di Claudio Bondi, che porta lo stesso titolo. Il poemetto, giunto
incompleto, è forse il vero pianto sul sepolcro della civiltà classica e
pagana. Abbastanza noti sono i versi in cui Rutilio celebra la missione
civilizzatrice di Roma: Fecisti patriam diversis gentibus unam; / profuit
iniustis te dominante capi. / Dumque offers victis proprii consortia iuris, /
urbem fecisti quod prius orbi erat (De reditu, I, 63-66) Non sfugge al
lettore odierno tutta la malinconia di questi versi, forse involontaria ma
comunque inevitabile, scandita dai perfetti fecisti… profuit… fecisti.
Rutilio, in un Impero ormai da tempo ufficialmente cristiano, manifesta a più
riprese il proprio disprezzo verso di essi, specie quando si tratta di monaci.
Non sa vedere oltre la Roma classica: il suo messaggio è inconfondibilmente
patetico. La fiaccola della creatività è passata ormai definitivamente in mano
ai Cristiani, che la terranno per secoli. Tra di essi qualcuno, come Gerolamo,
è terrorizzato dalle invasioni e dagli eventi sanguinosi che queste hanno
comportato: nella lettera CXXIII sconsiglia alla vedova Agerruchia di passare a
nuove nozze mentre il mondo è sconvolto e ne sembra prossima la fine. Roma
riscatta la propria libertà con l'oro, proprio come ai tempi di Brenno, e anche
il marito che la giovane sta per prendere potrebbe presto partire per la guerra. Qualcun altro, come Paolo Orosio,
amico di Agostino e continuatore del suo De civitate Dei, non ha paura
né del presente né del futuro e giunge a scrivere nelle Historiae adversus
paganos: "Anche se i
barbari fossero stati mandati sul suolo romano col solo scopo che le Chiese
d'Oriente e d'Occidente si riempissero di Unni, di Suebi, di Vandali, di
Burgundi e d'innumerevoli folle di credenti di diversa stirpe, si dovrebbe
lodare ed esaltare la potenza di Dio" (VII, 41, 8). La Storia, come sappiamo, gli ha dato
ragione.
Anche il Tardoantico, come tutte le altre epoche, riserva a
chi lo osserva da vicino gioie e piaceri. È il momento, ad esempio, in cui la parrhesìa, la libertà di parola dei
predicatori si estrinseca dai pulpiti contro le numerose ingiustizie di una
società sempre più stratificata e immobile nella contrapposizione fra honestiores ricchissimi e humiliores sempre più miserabili e senza
speranza di riscatto, destinati a subire gli effetti di invasioni, carestie e
pestilenze. È l'epoca delle appassionate denunce sociali lanciate dai pulpiti
da figure che non si fanno scrupolo di colpire i potenti o i ricchi
indifferenti. Per molti personaggi importanti della gerarchia ecclesiastica, la
religione è tutt'altro che un instrumentum
regni. Prendiamo ancora Ambrogio:
è abbastanza noto che egli costrinse l'imperatore Teodosio a fare pubblica
penitenza per aver ordinato l'eccidio della popolazione di Tessalonica dopo
averla fatta chiudere nello stadio della città. Forse è meno noto che in altre
opere come il De Nabuthae "prende una posizione"
inequivocabile contro i ricchi che opprimono i deboli: Non unus Nabuthae
pauper occisus est; cottidie Nabuthae sternitur, cottidie pauper occiditur
(I, 1). Ogni giorno un povero è ucciso, oppure è costretto a vendere schiavo un
figlio per poter sfamare gli altri figli, come ci testimonia Basilio di Cesarea
in un'omelia sulla ricchezza. Sempre Basilio, nell'omelia Sul Salmo I,
aveva rimproverato apertamente quelli che, tra il suo pubblico, aveva visto il
giorno prima a prostituirsi sulla pubblica piazza. Ormai ci siamo
"abituati" a figure di ecclesiastici come l'arcivescovo Oscar Romero
e don Puglisi, che non hanno timore di parlare contro malcostumi e ingiustizie
anche a prezzo della vita, ma con le denunce dei Cristiani di quest'epoca
assistiamo ad un vero fenomeno inedito.
Ma il Tardoantico è anche, e soprattutto, l'epoca
dell'interiorità, come aveva già ben visto la Mohrmann decenni fa: l'uomo
riflette su se stesso alla luce della Rivelazione e non rimane chiuso nelle sue
riflessioni, ma vi coinvolge una platea di lettori sentiti come fratelli da
guidare ed edificare. Il racconto dell'esperienza interiore ha qualche
precedente nella prosa pagana, ma non certo nella forma che incontriamo nel
Tardoantico: sia nelle Tusculanae disputationes di Cicerone, ad esempio,
o nei Dialoghi di Seneca, o ancora
nei Ricordi di Marco Aurelio si
avverte una tenace, o disperata, ricerca di autosufficienza del saggio nei
confronti dei mali del mondo. Nella poesia Lucrezio e Orazio, solo per citare
due nomi celebri, cercano nella filosofia epicurea la pace dell'animo seguendo
percorsi diversi, il primo è più ideologico, il secondo più empirico: sempre
però avvertiamo lo stesso senso di distacco, ora sprezzante, ora sfiduciato,
dall'esperienza comune, dal profanum vulgus.
Mentre
di questi argomenti io scrivo o parlo, possa, libero dai vincoli del corpo,
spiccare il volo, là dove la mobile lingua mi porterà col suo ultimo accento!
(trad. del card. Michele Pellegrino)
Andrea Salvini