sabato 22 febbraio 2014


La droga e noi



νθεν δ'ννμαρ φερόμην λοος νέμοισι
πόντον πιχθυόεντα· τρ δεκάτ πέβημεν
γαίης Λωτοφάγων, ο τ'νθινον εδαρ δουσιν.
νθα δ'π'πείρου βμεν κα φυσσάμεθ'δωρ,
αψα δ δεπνον λοντο θος παρ νηυσν ταροι.
ατρ πε σίτοιό τ'πασσάμεθ' δ ποθτος,
δ τότ' γν τάρους προΐειν πεύθεσθαι όντας
ο τινες νέρες εεν π χθον στον δοντες,
νδρε δύω κρίνας, τρίτατον κήρυχ' μ' πάσσας.
ο δ' αψ' οχόμενοι μίγεν νδράσι Λωτοφάγοισιν·
οδ' ρα Λωτοφάγοι μή δονθ' τάροισιν λεθρον
μετέροις, λλά σφι δόσαν λωτοο πάσασθαι.
τν δ' ς τις λωτοο φάγοι μελιηδέα καρπόν,
οκέτ'  παγγελαι πάλιν θελεν οδ νέεσθαι,
λλ' ατο βούλοντο μετ' ανδράσι Λωτοφαγοσι
λωτν ρεπτόμενοι μενέμεν νόστου τε λαθέσθαι.
τος μν γν π νας γον κλαίοντας νάγχη,
νηυσ δ' ν γλαφυρσιν π ζυγ δσα ρύσσας .
αταρ τος λλους κελόμεν ρίηρας ταίρους  
σπερχομένους νην πιβαινέμεν κειάων,
μή πς τις λωτοο φαγν νόστοιο λαθέται.

Per nove giorni fui trascinato da venti funesti
sul mare pescoso: al decimo giorno arrivammo
alla terra dei Mangiatori di loto, che mangiano cibi di fiori.
Qui sul lido scendemmo e attingemmo dell'acqua;
e subito presero il pasto presso l'agili navi i compagni.
Poi, come di cibo fummo sazi e di vino,
allora mandai dei compagni a informarsi
che gente su quella terra vivesse mangiando pane;
e scelsi due uomini, e terzo aggiunsi l'araldo.
Subito andando, si mescolarono fra i mangiatori di loto,
e i mangiatori di loto non meditarono la morte ai compagni
nostri, anzi, diedero loro del loto a mangiare.
Ma chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto,
non voleva portar notizie indietro e tornare,
ma volevano là, tra i mangiatori di loto,
a pascer loto restare e scordare il ritorno.
E io sulla nave li trascinai per forza, piangenti,
e nelle concave navi sotto i banchi dovetti cacciarli e legarli. (trad. di Rosa Calzecchi Onesti)



Odissea, IX, 82-102

Agli esordi della letteratura europea non si poteva trovare una condanna più esplicita dell'uso di droghe. I compagni di Odisseo vanno in avanscoperta ed incontrano i mangiatori del fiore di loto, dietro il quale non sarà difficile scorgere il papavero da oppio. I Lotofagi sono molto amichevoli e pacifici: non attentano alla vita dei forestieri: si limitano ad offrire loro da mangiare il loto. Sarebbe facile rimanere lì, dimenticarsi di tutto, del mare, delle famiglie, del ritorno... ma Odisseo non lo permette: afferra i compagni e li riporta alla nave senza curarsi dei loro lamenti, e soprattutto senza la minima incertezza su ciò che deve fare. Non ci uscirà mai di mente una ragazza che arrivava a scuola e subito cominciava a pensare all'eroina. Un giorno, sempre a scuola, avemmo la sventura di vederla con gli occhi che le si stavano come divaricando in due direzioni opposte... Un altro giorno la sentimmo dire ad un compagno che il suo sogno era andare in India, dove ci si poteva "fare" dalla mattina alla sera, senza alcun disturbo... un vero paradiso in terra... proprio come quello dei Lotofagi.
Sarà bene che l'Europa non dimentichi la lezione di Odisseo: essa ci viene dall'alba della sua coscienza.
Andrea Salvini

venerdì 14 febbraio 2014


Il merito è pericoloso

"Fuit tamen faber qui fecit phialam vitream, quae non frangebatur. Admissus ergo Caesarem est cum suo munere, deinde fecit reporrigere Caesari et illam in pavimentum proiecit. Caesar non pote valdius quam expavit. At ille sustulit phialam de terra; collisa erat tamquam vasum aeneum. Deinde martiolum de sinu protulit et phialam otio belle correxit. Hoc facto putabat se coleum Iovis tenere, utique postquam illi dixit: 'Numquid alius scit hanc condituram vitreorum?' Vide modo. Postquam negavit, iussit illum Caesar decollari: quia enim, si scitum esset, aurum pro luto haberemus. (Petronio, Satyricon, LI)

Non c'è forse un altro testo che possa darci un'idea esemplare di come può essere pericoloso essere davvero bravi. Si tratta della novella del vetro infrangibile, inserita all'interno della Caena Trimalchionis del Satyricon  di Petronio. Trimalcione, fra una pietanza e l'altra, intrattiene gli ospiti con battute di dubbio effetto in un latino colloquiale e gustosissimo. Ad un certo punto, parlando del valore dei metalli preziosi, si lascia andare a raccontare una breve novella. Abbiamo un anonimo artigiano che ha inventato il vetro infrangibile e che riesce a farsi ricevere dall'Imperatore con l'intenzione di offrirglielo in dono. Per dimostrare l'efficacia della sua invenzione, si fa ridare da Cesare la phiala che aveva portato e la sbatte per terra. L'ampolla non si rompe e Cesare si spaventa come non mai, ma noi non ne comprendiamo subito il motivo. L'artigiano raccoglie l'ampolla, che è solo ammaccata, e con un suo martelletto la fa tornare come nuova. A quel punto crede di essere arrivato al vertice della sua fortuna e Trimalcione lo esprime con parole popolaresche: putabat se coleum Iovis tenere. Ecco allora il totale rovesciamento della situazione: Cesare chiede solo se altri sono a conoscenza del segreto del vetro infrangibile. L'artigiano risponde candidamente di no e Cesare, rassicurato, lo fa decapitare seduta stante. Cesare è il supremo custode dell'ordine precostituito: aveva capito subito che l'invenzione avrebbe fatto crollare il prezzo dell'oro, i ricchi sarebbero diventati poveri, chi non doveva mai avere opportunità, le avrebbe invece avute, e via dicendo... Trimalcione, principe dei ben pensanti, lo sottolinea inequivocabilmente: quia enim, si scitum esset, aurum pro luto haberemus.
Ogni volta che leggiamo questa novella ci viene da pensare a quanti, provvisti di lauree, master e quant'altro, se si trovano nella necessità di cercare un lavoro per vivere, si sentono rispondere che il loro curriculum è troppo alto; oppure a quanti nelle patrie Università, pur provvisti di talento, devono cedere il passo a chi può vantare meriti, diciamo così, eccezionali. Ciò che ci preoccupa è che questa mentalità italiana sembra proprio inscalfibile: l'amara novella di Petronio ce ne documenta l'esistenza fino dalle età più remote. Per stavolta, non scomodiamo il nipote del Gattopardo...

Andrea Salvini

sabato 8 febbraio 2014


Il "clima politico"

Sed haec et his similia utcumque animaduersa aut existimata erunt haud in magno equidem ponam discrimine: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. (Tito Livio, Praefatio)

Il passo di Livio che abbiamo oggi riportato proviene dalla Prefazione alla sua opera storiografica, per quei tempi gigantesca. A nostro avviso, esso riassume il significato di tutto il brano. Colpiscono soprattutto le ultime parole: la società romana e il suo Stato non sono più in grado di sopportate né i loro vizi né i rimedi contro di essi: ad haec tempora quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. Non riusciamo a sfuggire a questo stato d'animo se cediamo alla tentazione di assistere ad uno dei tanti, troppi dibattiti televisivi sulla politica. Tra l'altro, abbiamo fatto caso che ogni sera, nella fascia di maggiore ascolto televisivo, se ne può trovare uno? Questi dibattiti ci sembrano sempre più inutili risse di acrimonie contrapposte, sterili momenti in cui i politici di turno si denigrano abilmente a vicenda, facendo sfoggio di dialettiche consumate, ma forse solo imparate a memoria nelle "scuole di politica" dei partiti. Poi, non sembra accadere assolutamente nulla, nemmeno se interviene ad esporre la sua storia di disoccupazione una giovane laureata in ingegneria, specializzata in microelettronica, che ha compiuto anche esperienze di ricerca all'estero.
Livio scriveva quando Augusto sembrava aver riportato Roma al suo antico splendore, ma si mostra amaramente consapevole che nulla e nessuno potrà mai salvarla, perché la sua crisi è una crisi morale: labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites. Quando in una società ognuno sembra fuggire per la propria strada recriminando e imprecando contro gli altri, una catastrofe non sembra lontana. Speriamo di essere smentiti.

Andrea Salvini

sabato 1 febbraio 2014


Noi e i nuovi barbari: altre riflessioni.

His diebus efficacia Iulii magistri militiae trans Taurum enituit salutaris et velox. conperta enim fatorum sorte per Thracias, Gothos antea susceptos, dispersosque per varias civitates et castra, datis tectioribus litteris ad eorum rectores Romanos omnes, quod his temporibus raro contingit, universos tamquam vexillo erecto uno eodemque die mandavit occidi, exspectatione promissi stipendi securos ad suburbana productos. quo consilio prudenti sine strepitu vel mora completo, orientales provinciae discriminibus ereptae sunt magnis. (Ammiano Marcellino, Res Gestae a fine Cornelii Taciti, XXXI, 8)

Con questo gelido e sbrigativo resoconto di un eccidio terminano le Res Gestae di Ammiano Marcellino. A queste righe segue solo il commiato dell'autore dalla propria opera. Ricostruiamo il contesto storico. E' l'anno 378 d. C. I Romani sono stati rovinosamente sbaragliati ad Adrianopoli. Anche l'imperatore Valente è morto in battaglia. Giulio, magister militiae, per evitare che i Goti che già servivano nell'esercito romano in Tracia si ribellino e ingigantiscano la disfatta, prima che essi vengano a sapere della vittoria dei loro connazionali, ordina segretamente ai loro comandanti romani di farli concentrare in luoghi appartati; quindi li fa massacrare tutti nello stesso giorno. L'episodio è narrato in poche righe classicamente composte. Ammiano elogia questa saggia (prudenti) iniziativa di Giulio, portata a compimento senza clamore e senza esitazioni (sine strepitu vel mora completo). Giulio si è comportato da vero Romano e ha messo al sicuro tutte le province orientali dell'Impero (orientales provinciae discriminibus ereptae sunt magnis).
Ogni volta che leggiamo queste righe rimaniamo impressionati. In un'Europa che vede arrivare sempre più numerosi gli immigrati serpeggia la tentazione di ricorrere a mezzi come quelli impiegati da Giulio per salvare noi stessi e la nostra identità. Girando per le strade o entrando in un bar sentiamo da tempo discorsi simili: bastano poche parole colte al volo. La storia successiva ci deve insegnare, comunque: versare il sangue a fiumi non ferma i barbari, qualunque sia il colore della loro pelle. E' più utile mettersi in discussione. Tutti insieme.


Andrea Salvini