Su Paolo e Francesca in
"Amalgama" di Valeria Serofilli
Pochi canti danteschi come il V dell'Inferno sono stati letti, discussi, analizzati, rivissuti e, a
volte, anche traditi. In pochi altri testi letterari ci troviamo a confronto
con il dissidio fra l'abbandono, che pare così ovvio, alla più travolgente
delle passioni umane e le sue possibili rovinose conseguenze, tra cui, la più
terribile, consiste nella dannazione eterna. Ha talmente esercitato da subito
il suo fascino sui lettori da diventare uno dei canti più letti e diffusi anche
prima del completamento della Divina
Commedia, come ha mostrato la ricognizione di uno dei "Memoriali
bolognesi" risalente al 1304. I critici si sono divisi a lungo su di esso.
Canto dell'amore o canto della pietà? Il Caretti trovò una brillante soluzione
critica: amore e pietà sono due "parole‑tema" che non hanno un vero
significato se considerate separate, ma che si rafforzano potentemente se viste
l'una nell'ottica dell'altra. Il Canto genera il senso di una scissione dolorosa
e mai pacificata. Paolo e Francesca sono uniti per sempre dal loro amore, ma in
questa unione non troveranno mai pace. L'amor cortese che anche Dante ha
sentito come fonte di elevazione spirituale e di poesia nella sua giovinezza,
fallisce clamorosamente di fronte alla condanna divina, come un sogno che
svanisce quando si viene destati da un evento catastrofico. Dante personaggio
del Canto rivive in sé la sua stagione creatrice giovanile e sembra non
accettare questa condanna: prima si turba sempre più e alla fine sviene, tronca
il confronto, quasi si autocensura probabilmente per accettare la condanna
divina senza esprimersi contro di essa.
Valeria Serofilli ripropone in questa sua lirica-gioiello il
dramma dei due cognati, con il suo stile giocoso e insieme pregnante, sempre
leggero ma dall'impronta indelebile. All'inizio i due appaiono come due ragazzi
birichini che progettano di rubare una mela: è il furto di una vita, quasi un gesto che segna il passaggio alla
vita adulta, o, forse, una liberazione da un ambiente familiare costrittivo. Le
labbra rosse di Francesca diventano
un altro frutto proibito, come quello gustato da Adamo ed Eva.La genialità di
questa lirica consiste, secondo noi, anche in questa assimilazione di Paolo e
Francesca proprio con Adamo ed Eva. In una chiave modernissima i due Romagnoli
diventano i cloni dei Progenitori, rinati attraverso un libro, il romanzo
arturiano che stavano leggendo insieme.
Se si guarda oltre, però, notiamo che la Serofilli è
riuscita a ricreare nel breve volgere di questa lirica quel senso di scissione
insanabile che abbiamo visto essere una delle caratteristiche del Canto
dantesco. Il senso del doppio è un filo conduttore di tutta la produzione della
Serofilli, come andiamo ripetendo da anni, e forse proprio per questo la
sensibilità dell'Autrice si è lasciata attrarre dai due cognati romagnoli,
uniti e al contempo divisi per l'eternità. Il senso della scissione balza agli
occhi in certi accostamenti semantici fra parole in posizione di rilievo: uno è
"verticale" (clonati - rinati),
e qui i termini sono semanticamente omogenei, ma osserviamo che li divide un
abisso culturale. Poi ne abbiamo altri "orizzontali": ad esempio: unico ‑ imitativo, dove invece
abbiamo una netta opposizione. La più significativa di queste opposizioni è passione ‑ condanna,
sottolineata dalle allitterazioni circostanti (passione…troppa). È qui che la Serofilli non sfugge, come fa il
Dante personaggio, alla espressione libera di una non accettazione e coglie,
nel contempo, quello che il Poeta non ha voluto dire: Con Dante io vi comprendo! Tutto questo ci appare coerente con la
vena passionale e dionisiaca che affiora in tutta la produzione serofilliana e
che ci risulta evidente fin dalle sue prime raccolte. Ricordiamo appena le sue Vendemmia in "Acini d'anima" e
Estasi panica in "Tela di
Erato": quest'ultima, inoltre, già si abbinava al motivo della divisione
insanabile e, appunto, cominciava con la parola "scissa".
Andrea Salvini