Su "Lo specchio di Leonardo" di Ivano Mugnaini
(Eiffel edizioni, 2016)
L'idea della fuga dalla vita quotidiana grazie ad un doppio
di se stessi non è nuova nella letteratura, più o meno recente. Chi non ricorda
"Il fu Mattia Pascal" di Pirandello? Mattia Pascal si trova libero da
se stesso e da tutta la congerie oppressiva degli assilli quotidiani grazie ad
un doppio perfettamente docile, al cadavere di uno sconosciuto che,
ufficialmente, lo fa scomparire per sempre dalla scena del mondo rendendolo
libero di inventarsi una vita tutta nuova. In effetti ci è sembrato di trovare,
quasi all'inizio del romanzo del Mugnaini, un preciso riferimento all'universo
pirandelliano: "E, una buona volta, avrei potuto vedermi vivere, o, ancora
meglio, osservare come gli altri mi vedevano o credevano di vedermi: le
falsità, i commenti velenosi, le pugnalate appena voltata la schiena. Avrei
finalmente scrutato con calma e con agio le facce e i cuori degli altri.
Pensando anche, con enorme applicazione, a una vendetta adeguata, prima di
morire: un’invenzione decisiva, risolutiva, un micidiale cavallo di Troia per
questo mondo malato" (p. 23). Non sarà sfuggito al lettore, verso la fine
del passo che abbiamo riportato, anche un richiamo al noto finale della
"Coscienza" sveviana. Un primo omaggio al Novecento è dato, ma ne
troveremo altri, come avremo modo di osservare in questo nostro tentativo di
lettura. Avvertiamo, infatti, sin da ora che ci sembra ben difficile dire
qualcosa di esaustivo su questo testo, su cui altri sono già autorevolmente
intervenuti. Solo il tempo e ulteriori riflessioni critiche potranno portare
più luce su un testo davvero complesso e che è stato sicuramente scritto dopo
approfonditi studi storici e artistici.
Intanto vediamo che la narrazione è condotta da un "io
narrante" che si propone praticamente come onnisciente riguardo alla
realtà; e non poteva essere altrimenti, dato che si tratta dell'«io» del grande
Leonardo: egli appare in grado di comprendere tutto ciò che lo circonda, tutto
ciò che si trova nell'animo di chi incontra, si tratti di Lorenzo il Magnifico
o di una semplice ragazza veneziana, maldestra avventuriera. Un altro «io
narrante» di tale spessore lo possiamo incontrare solo là dove il protagonista
ha uno spessore culturale elevatissimo, come, ad esempio, nelle "Memorie
di Adriano" della Yourcenar: anche qui il protagonista ci racconta se
stesso dal vertice assoluto della società ove si trova collocato, lucido e
implacabile scrutatore di uomini e cose, senza nascondere le proprie bassezze e
nefandezze, consapevole infine del proprio declino, del proprio scivolare
dall'onnipotenza in una sostanziale impotenza. Lo stile ovunque prezioso, quasi
fastoso, del romanzo, che troviamo tanto simile a quello della Yourcenar,
rafforza nel lettore l'impressione di onnipotenza dell'io narrante.
Il Leonardo di Mugnaini ci sembra ripercorrere un cammino
simile, connotato da una onnipotenza intellettuale, diversa da quella di
Adriano. All'inizio manipola il povero Manrico senza difficoltà, lo convince a
diventare il suo doppio, anzi, il suo specchio. Segue quindi la fuga a
precipizio dal proprio ruolo che ci appare come una vera e propria discesa agli
inferi. Leonardo cerca anzitutto la trasgressione in una casa di prostituzione
a Firenze. Poi passa una notte spensierata a Venezia con Emilia, una delle
figure forse più tragiche del romanzo: Leonardo non esita ad abbandonarla, pur
sapendola innocente, alla terribile giustizia veneziana[1],
dando prova di un perfetto egoismo narcisistico. Il fondo viene toccato poco
dopo, con la narrazione a Manrico della violenza abietta compiuta in gioventù
ai danni di Jacopo Saltarelli in compagnia dei giovani‑bene di Firenze, che
poi, grazie all'intervento personale del Magnifico Lorenzo, possono anche
concedersi il lusso di sfuggire elegantemente ai rigori della legge. Leonardo
ci appare a questo punto una figura disgustosamente impunita, ma ecco che nel
suo "specchio" avviene qualcosa. Manrico comincia a rivelarsi
tutt'altro che ottuso e docile: scopre di avere un'arma per ricattare in futuro
proprio Leonardo, anche se, per il momento, abbiamo solo un'allusione
oscura: “Quello che mi ha detto,
Maestro, è una cosa grossa. Io, lo sa bene, sono un contadino, tutto sommato, e
figlio di contadini; ho fatto il copista, certo, ma resto un ignorante e so di
esserlo. Però perfino io capisco che quella notte è accaduto qualcosa che non
si cancella. La ringrazio per avermi fatto questa confidenza. Ma si ricordi, la
prego, ora e nel futuro, una cosa: non sono stato io a chiederle di raccontarmi
di quel fatto e di quel processo” (p. 47).
Leonardo non sembra percepire il cambiamento avvenuto nello
"specchio", in colui che gli ha reso possibile fare ciò che ad un
personaggio pubblico, prigioniero della sua dignità, non sarebbe stato
possibile. Comincia ad essere assillato dal pensiero del tempo che si consuma e
della morte che si avvicina e continua il suo viaggio, stavolta da solo,
lasciando Manrico a vivere la sua vita di artista ricercato e osannato. Si
alternano vari quadri, vari incontri, tutti contrassegnati da immagini di
morte, di fallimento, di sopraffazione. Il mondo appare irredimibile, ma, ad un
certo momento Leonardo sembra avere un'illuminazione: "Ho iniziato questo
viaggio, la fuga da me stesso e dalla mia immagine, per ribellione, per un moto
di rabbia contro il mondo e contro di me. Ora, a metà del cammino, mi trovo di
fronte a un paradosso: negli occhi umili che ho incontrato, e non di rado
ferito, c’è la più quieta e la più possente tra tutte le forze, la più inattesa
e autentica forma di rivolta: la bontà" (p. 57).
Fin dall'inizio il Leonardo di Mugnaini viene rappresentato
come un essere in profondo dissidio con se stesso; l’Autore, però non ci sembra
precisare mai fino in fondo la natura di tale dissidio. All'inizio sembrano
prevalere motivi psicanalitici, legati all’abbandono da parte della madre, ma
poi su di essi si innestano vari altri motivi, tutti contrassegnati da una
profonda e amara sfiducia verso se stessi e il mondo. La scoperta della
presenza della bontà non cambia l'animo di Leonardo: egli rientra nella sua
casa fiorentina per accogliere proprio sua madre, la donna che lo aveva
abbandonato, che rimane con lui negli ultimi giorni di vita. Tra i due non si
apre alcun confronto pacificatore e risolutivo: la madre di Leonardo muore e
basta, senza che vi sia stata nessun dialogo liberatorio, nessuna confessione,
nessun perdono. Leonardo tenta allora di tornare indietro, di rinunciare al suo
assurdo gioco indagatorio: "Non era più tempo di pagliacciate, per
rispetto della morte e della vita dovevo ritrovare la follia più autentica, la
verità" (p. 63). Tenta di sbarazzarsi di Manrico riconducendolo là dove lo
aveva incontrato, ma non si accorge che sta commettendo un errore. Manrico,
infatti, rivela, quasi di sfuggita, ma inequivocabilmente, di essere stato una
sorta di "convitato di pietra" alla mensa di Leonardo: "Ringraziai
Manrico, e quasi mi scusai con lui per avere fallito, per non essere riuscito a
prolungare né a concretizzare il mio folle e magico progetto. Con un solo gesto
mi fece capire che non era con lui che mi dovevo scusare. Mi fece intendere che
aveva raccolto molto, ed altrettanto teneva custodito dentro di sé, destinato a
dare nuovi frutti" (p. 65). Così Leonardo scivola inconsapevolmente dall'onnipotenza
all'impotenza: crede di poter tornare al suo interminabile investigare e
rimuginare di studioso, ma Manrico una sera bussa alla sua porta e lì comincia
la sua riscossa. Leonardo cede da codardo ad un basso ricatto e consente a
Manrico di realizzare la propria autentica natura: il sosia non era solo un
sosia, era qualcuno che non aveva avuto le occasioni del suo fortunato "doppio".
Tutto questo ci ha fatto pensare alla scena finale del "Ritratto di Dorian
Gray" di Wilde. Il ritratto uccide Dorian nel momento in cui sembra
destinato alla distruzione, così come Manrico diventa artista più sublime di
Leonardo nel momento in cui sembra destinato a sparire per sempre dalla scena
della Storia: è lui che realizza il sorriso della "Gioconda" e sta
per trionfare su Michelangelo nella decorazione del salone dei Cinquecento a
Firenze con "La battaglia di Anghiari". Leonardo lo terrà ancora con
sé a Roma, muto assistente del suo interminabile colloquio con se stesso,
collaboratore sfruttato e mai ricompensato per la propria creatività. Cercherà
ancora di liberarsene, ma il suo "doppio", dopo aver escogitato una
vendetta ancora più tremenda del precedente ricatto, riuscirà a diventare
definitivamente Leonardo, quello che lavorerà nei suoi ultimi anni alla corte
francese. Se volessimo ancora richiamarci a Pirandello, quando si è usciti dal
proprio ruolo, dalla propria "maschera", non è più possibile
rientrarvi: Mattia Pascal non può risuscitare, Enrico IV non può tornare
indietro nel tempo a rivivere il suo amore perduto e via dicendo. Manrico appare
perfettamente consapevole di questo e lo rivela a Leonardo quando torna dalle
sue montagne : "Senza mai smettere di sorridere, mi disse che aveva
provato con tutte le forze ad ambientarsi di nuovo nelle sue montagne, ma non
gli era stato possibile. Nulla era più lo stesso, e soprattutto lui era
cambiato" (p. 67). Il genio è sconfitto, il copista povero e ignorante è
il vero trionfatore: la sicumera iniziale di Leonardo è stata battuta dalla
tenacia, forse un po’ furbesca, di un montanaro.
Concludiamo, per ora almeno, le nostre considerazioni,
tornando a dire che queste non possono essere che provvisorie. Speriamo quindi
in nuovi contributi critici su questo testo, che non può lasciare indifferenti,
specialmente per quanto riguarda l’interpretazione della vera natura del
dissidio interiore di Leonardo, davvero sfuggente come il sorriso di Monna
Lisa.
Andrea Salvini