domenica 5 luglio 2015

Grecia e Occidente

Grecia e Occidente

Ci troviamo in una strana convergenza della Storia. Da una parte dobbiamo fronteggiare l'assalto del radicalismo islamico che rifiuta in blocco la civiltà occidentale. Se non andiamo errati, "boko haram", il nome dello "stato islamico" africano, vuol dire più o meno "la civiltà occidentale è peccato": dunque, secondo una certa parte del mondo islamico, tutti noi che viviamo nei cosiddetti paesi occidentali siamo solo un gigantesco peccato da cancellare con il nostro stesso sangue. Dall'altra assistiamo impotenti al "fallimento" economico e finanziario della Grecia. Solo negli ultimi tempi abbiamo sentito qualche voce che ricordava come la Grecia è proprio la culla della nostra civiltà occidentale. Qualcuno ha fatto ancora il nome di Eschilo, di Socrate, di Platone e di altri. Non sappiamo quanti siano in grado di ricordarne il messaggio in in un mondo occidentale che sembra aver fatto della banalità la propria norma di pensiero. Possiamo anche fermarci a ricordare che, ben prima dei Franchi a Poitiers, sono stati proprio i Greci di Bisanzio a fermare nel VII secolo d.C. l'avanzata degli Arabi durante un assedio che si protrasse per anni e che i Greci riuscirono a vincere grazie al "fuoco greco", la "bomba atomica" del tempo, messa a punto grazie alla propensione tutta greca alle ricerche sulla natura.
Oggi, giorno del referendum sul sì o sul no alle misure economiche imposte dalla finanza mondiale come prezzo del "salvataggio" dalla bancarotta, ci piace ricordare come la più densa ed efficace formulazione dei principi laici su cui fonda l'attuale Europa ci sia stata fornita da Tucidide, lo storico della Guerra del Peloponneso, vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. Si tratta del famoso "Epitaffio" pronunciato da Pericle in occasione della sepoltura dei caduti ateniesi nel primo anno di guerra. Essi sono morti per un altissimo ideale civile e non religioso: lo potremmo definire the athenian way of life, per parafrasare un'espressione americana divenuta celebre. Pericle stesso sarebbe morto di peste entro pochi mesi. Insieme con lui morirà anche l'Atene migliore: poi la città cadrà preda dei demagoghi e la guerra sarà perduta. Si potrebbe anche aggiungere che la Grecia sia stata allora, come oggi, la peggior nemica di se stessa. Non si finisce mai di riflettere intorno a queste parole del Pericle di Tucidide. Riportiamo solo alcuni brani, con una traduzione che non è nostra, ma ci sembra abbastanza affidabile, recuperata da un sito di internet pubblico. Per ora, nella fretta della circostanza odierna, ci limitiamo a questo: forse la correggeremo prossimamente, se avremo tempo e possibilità.

Andrea Salvini

[2.37.1] 'Χρώμεθα γὰρ πολιτείαι οὐ ζηλούσηι τοὺς τῶν πέλας νόμους, παράδειγμα δὲ μᾶλλον αὐτοὶ ὄντες τισὶν ἢ μιμούμενοι ἑτέρους. καὶ ὄνομα μὲν διὰ τὸ μὴ ἐς ὀλίγους ἀλλ' ἐς πλείονας οἰκεῖν δημοκρατία κέκληται· μέτεστι δὲ κατὰ μὲν τοὺς νόμους πρὸς τὰ ἴδια διάφορα πᾶσι τὸ ἴσον, κατὰ δὲ τὴν ἀξίωσιν, ὡς ἕκαστος ἔν τωι εὐδοκιμεῖ, οὐκ ἀπὸ μέρους τὸ πλέον ἐς τὰ κοινὰ ἢ ἀπ' ἀρετῆς προτιμᾶται, οὐδ' αὖ κατὰ πενίαν, ἔχων γέ τι ἀγαθὸν δρᾶσαι τὴν πόλιν, ἀξιώματος ἀφανείαι κεκώλυται. [2.37.2] ἐλευθέρως δὲ τά τε πρὸς τὸ κοινὸν πολιτεύομεν καὶ ἐς τὴν πρὸς ἀλλήλους τῶν καθ' ἡμέραν ἐπιτηδευμάτων ὑποψίαν, οὐ δι' ὀργῆς τὸν πέλας, εἰ καθ' ἡδονήν τι δρᾶι, ἔχοντες, οὐδὲ ἀζημίους μέν, λυπηρὰς δὲ τῆι ὄψει ἀχθηδόνας προστιθέμενοι. [2.37.3] ἀνεπαχθῶς δὲ τὰ ἴδια προσομιλοῦντες τὰ δημόσια διὰ δέος μάλιστα οὐ παρανομοῦμεν, τῶν τε αἰεὶ ἐν ἀρχῆι ὄντων ἀκροάσει καὶ τῶν νόμων, καὶ μάλιστα αὐτῶν ὅσοι τε ἐπ' ὠφελίαι τῶν ἀδικουμένων κεῖνται καὶ ὅσοι ἄγραφοι ὄντες αἰσχύνην ὁμολογουμένην φέρουσιν.
[2.38.1] 'Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῆι γνώμηι ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει. [2.38.2] ἐπεσέρχεται δὲ διὰ μέγεθος τῆς πόλεως ἐκ πάσης γῆς τὰ πάντα, καὶ ξυμβαίνει ἡμῖν μηδὲν οἰκειοτέραι τῆι ἀπολαύσει τὰ αὐτοῦ ἀγαθὰ γιγνόμενα καρποῦσθαι ἢ καὶ τὰ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων.

[XXXVII] Viviamo infatti in un sistema di governo che non invidia le leggi dei vicini, ma anzi siamo noi d’esempio per alcuni piuttosto che imitare altri. E il suo nome, a motivo dell’essere amministrata non nell’interesse dei pochi ma dei molti, è democrazia, e secondo le leggi ciascuno ha pari diritti nelle dispute private, e per quanto riguarda la considerazione dei cittadini ognuno, secondo quanto si distingue in qualche campo, nell’amministrare le faccende pubbliche non è stimato per la classe sociale da cui proviene più che per il suo valore, né d’altronde la povertà, se si è in grado di fare qualcosa di buono per la città, è d’ostacolo a causa dell’oscurità del rango. Liberamente governiamo gli interessi pubblici e anche l’ostilità reciproca nell’ambito dei contatti quotidiani, senza adirarci con il vicino se fa qualcosa per il proprio piacere, e senza infliggerci molestie certo non passibili di punizione ma comunque spiacevoli a vedersi. Mentre conviviamo in privato senza offenderci, nelle faccende pubbliche non violiamo le leggi soprattutto per timore, per obbedienza a coloro che di volta in volta reggono il potere e alle leggi, in particolare a quelle che sono stabilite per proteggere le vittime d’ingiustizia e a quelle che, pur non scritte, portano unanime disonore di fronte alla comunità.[XXXVIII] Inoltre ci procuriamo con l’ingegno il massimo sollievo dalle fatiche, stabilendo per legge agoni e sacrifici annuali, e in privato con arredi eleganti, il diletto dei quali di giorno in giorno scaccia dai cuori il dolore. Grazie all’influenza della città ogni genere di mercanzia è importata da tutto il mondo, e ne consegue che per noi i prodotti di questa terra non hanno un gusto più familiare di quelli degli altri popoli.  (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, II, 38‑39)


[2.40.1] 'Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτωι τε ἔργου μᾶλλον καιρῶι ἢ λόγου κόμπωι χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργωι αἴσχιον. [2.40.2] ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγωι πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργωι ἐλθεῖν. [2.40.3] διαφερόντως γὰρ δὴ καὶ τόδε ἔχομεν ὥστε τολμᾶν τε οἱ αὐτοὶ μάλιστα καὶ περὶ ὧν ἐπιχειρήσομεν ἐκλογίζεσθαι· ὃ τοῖς ἄλλοις ἀμαθία μὲν θράσος, λογισμὸς δὲ ὄκνον φέρει. κράτιστοι δ' ἂν τὴν ψυχὴν δικαίως κριθεῖεν οἱ τά τε δεινὰ καὶ ἡδέα σαφέστατα γιγνώσκοντες καὶ διὰ ταῦτα μὴ ἀποτρεπόμενοι ἐκ τῶν κινδύνων. [2.40.4] καὶ τὰ ἐς ἀρετὴν ἐνηντιώμεθα τοῖς πολλοῖς· οὐ γὰρ πάσχοντες εὖ, ἀλλὰ δρῶντες κτώμεθα τοὺς φίλους. βεβαιότερος δὲ ὁ δράσας τὴν χάριν ὥστε ὀφειλομένην δι' εὐνοίας ὧι δέδωκε σώιζειν· ὁ δὲ ἀντοφείλων ἀμβλύτερος, εἰδὼς οὐκ ἐς χάριν, ἀλλ' ἐς ὀφείλημα τὴν ἀρετὴν ἀποδώσων. [2.40.5] καὶ μόνοι οὐ τοῦ ξυμφέροντος μᾶλλον λογισμῶι ἢ τῆς ἐλευθερίας τῶι πιστῶι ἀδεῶς τινὰ ὠφελοῦμεν.
[2.41.1] 'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι καὶ καθ' ἕκαστον δοκεῖν ἄν μοι τὸν αὐτὸν ἄνδρα παρ' ἡμῶν ἐπὶ πλεῖστ' ἂν εἴδη καὶ μετὰ χαρίτων μάλιστ' ἂν εὐτραπέλως τὸ σῶμα αὔταρκες παρέχεσθαι. [2.41.2] καὶ ὡς οὐ λόγων ἐν τῶι παρόντι κόμπος τάδε μᾶλλον ἢ ἔργων ἐστὶν ἀλήθεια, αὐτὴ ἡ δύναμις τῆς πόλεως, ἣν ἀπὸ τῶνδε τῶν τρόπων ἐκτησάμεθα, σημαίνει. [2.41.3] μόνη γὰρ τῶν νῦν ἀκοῆς κρείσσων ἐς πεῖραν ἔρχεται, καὶ μόνη οὔτε τῶι πολεμίωι ἐπελθόντι ἀγανάκτησιν ἔχει ὑφ' οἵων κακοπαθεῖ οὔτε τῶι ὑπηκόωι κατάμεμψιν ὡς οὐχ ὑπ' ἀξίων ἄρχεται.[2.41.4] μετὰ μεγάλων δὲ σημείων καὶ οὐ δή τοι ἀμάρτυρόν γε τὴν δύναμιν παρασχόμενοι τοῖς τε νῦν καὶ τοῖς ἔπειτα θαυμασθησόμεθα, καὶ οὐδὲν προσδεόμενοι οὔτε Ὁμήρου ἐπαινέτου οὔτε ὅστις ἔπεσι μὲν τὸ αὐτίκα τέρψει, τῶν δ' ἔργων τὴν ὑπόνοιαν ἡ ἀλήθεια βλάψει, ἀλλὰ πᾶσαν μὲν θάλασσαν καὶ γῆν ἐσβατὸν τῆι ἡμετέραι τόλμηι καταναγκάσαντες γενέσθαι, πανταχοῦ δὲ μνημεῖα κακῶν τε κἀγαθῶν ἀίδια ξυγκατοικίσαντες. [2.41.5] περὶ τοιαύτης οὖν πόλεως οἵδε τε γενναίως δικαιοῦντες μὴ ἀφαιρεθῆναι αὐτὴν μαχόμενοι ἐτελεύτησαν, καὶ τῶν λειπομένων πάντα τινὰ εἰκὸς ἐθέλειν ὑπὲρ αὐτῆς κάμνειν.

 [XL] “Amiamo infatti il bello con moderazione e il sapere senza debolezza; ci serviamo della ricchezza più come occasione per agire che come vanto nei discorsi, e ammettere la povertà non è vergogna per nessuno, ma non tentare di porvi rimedio coi fatti lo è assai di più. E negli stessi cittadini troviamo la cura per i propri affari privati insieme con quelli pubblici e la capacità di non disconoscere gli interessi della città pur rivolgendosi ciascuno alle proprie imprese: infatti siamo i soli a considerare colui che non si cura affatto di queste cose non una persona tranquilla, ma un incapace; a nostra volta giudichiamo e riflettiamo con attenzione sulle situazioni, ritenendo che i ragionamenti non siano dannosi per l’azione, bensì lo sia il non prepararsi in anticipo con il ragionamento prima di intraprendere nei fatti quanto è necessario. Ci distinguiamo certo anche in questo, che sempre noi sappiamo essere audaci al massimo grado e nel contempo fare i nostri calcoli su quanto ci accingiamo a fare: laddove agli altri l’ignoranza porta coraggio, il ragionamento esitazione. E giustamente si debbono giudicare i più forti nell’animo coloro che sanno chiaramente cos’è più terribile e cos’è dolce e non per questo sono distolti dai pericoli. E anche nel valore ci contrapponiamo ai più: ci conquistiamo alleati non ricevendo benefici, bensì procurandone. Infatti chi fa favori resta un alleato più sicuro, in modo da conservare un debito di gratitudine da parte di colui che li ha ricevuti attraverso la benevolenza; mentre chi ricambia un favore è meno saldo, sapendo che sta ripagando il valore non per ottenere gratitudine ma per estinguere un debito. E noi soltanto portiamo aiuto a ciascuno in considerazione non del calcolo dell’utile più che della fiducia nella libertà. [XLI] Insomma io affermo che tutta la città è la scuola dell’Ellade, e che mi pare che ciascun cittadino presso di voi rivolga la propria individualità alle forme più diverse e con somma grazia e versatilità. E che queste parole non siano l’ornamento improvvisato di un discorso piuttosto che la realtà dei fatti lo insegna la potenza stessa della città, che abbiamo conquistato grazie a queste usanze. Lei sola tra le contemporanee supera alla prova dei fatti la propria fama, e sola non dà al nemico che la assale motivo di sdegno per la sconfitta subita né al suddito motivo di rimprovero per non essere dominato da uomini degni. E avendo mostrato la nostra potenza con grandi esempi e non senza testimonianze saremo ammirati dai contemporanei come dai posteri, senza aver bisogno né delle lodi di un Omero né di qualcuno che con le parole offra un diletto immediato, mentre la verità dei fatti va a deludere le aspettative, bensì avendo costretto il mare intero e la terra ad aprirsi al nostro passo audace, costruendo ovunque monumenti delle nostre sconfitte e delle nostre vittorie. Per una tale città dunque costoro sono caduti combattendo nobilmente, ritenendo ingiusto esserne privati, e conviene che ciascuno dei sopravvissuti sia pronto a soccombere per lei. (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, II,40-41)




venerdì 20 marzo 2015

Su Ulisse di Valeria Serofilli

Chi potrebbe contare le rivisitazioni, le reinterpretazioni della figura di Ulisse? Eroe sempre avido di nuove esperienze e nel contempo stanco e desideroso di tornare dalla sua amata moglie. Ne esiste, come sappiamo, anche una negativa di Saba, che si propone come un Ulisse che si rifiuta di rientrare in porto, preferendo continuare all'infinito la sua avventura conoscitiva.
Scegliamo quindi di parlare dei primi brani di questo nuovo lavoro di Valeria Serofilli, quelli più propriamente "odissiaci". Si tratta di cinque prose liriche che non ci pare sbagliato definire perle di poesia, tanto per far riferimento ad un gioiello tipicamente marino. Sì, perché non vi è dubbio che il mare, o, per meglio dire, il motivo dell'acqua faccia da sfondo comune ad esse. Quando commentavamo la raccolta "Chiedo i cerchi", cercavamo di mettere in luce l'importanza decisiva del tema dell'acqua in quella raccolta. L'avevamo vista come grande metafora dell'essere, con il quale l'Autrice tentava un dialogo tenace e inesausto. Ora qui torna l'acqua in chiave, appunto, odissiaca, come veicolo di ricerca, ma anche come deposito di angoscia, elemento infido su cui ci si può perdere, se non si ha la volontà tenace di tornare, come appunto possiede Ulisse.
La dimensione epico‑eroica è lontana: abbiamo storie di piccole odissee dei giorni nostri, odissee che vive soprattutto il cuore femminile nella trepidazione della precarietà di un legame affettivo (Il sub) o di una gestazione che potrebbe sfociare nell'infelicità di una vita (Sirena). Un'altro dei temi dominanti della raccolta ci pare proprio questo senso profondo dell'incertezza che domina la vita umana. Come l'Autrice stessa ha sempre evidenziato, l'inizio della sua produzione risale ad un giorno di eclissi, ossia al dodici agosto del 1999. Sarà una coincidenza che anche oggi, 20 marzo 2015, giorno in cui viene presentato questo libro, è stato un giorno di eclissi? Comunque, la situazione di eclissi evoca la massima incertezza, l'assoluta mancanza di confini precisi, il senso di un doppio inscindibile. Lo scorgevamo quando scrivevamo sulla prima raccolta, gli "Acini d'anima", e questo senso di doppio che non si può separare aleggia sempre nelle altre raccolte, costante metafora delle ambiguità dell'esistenza.
Non sarà certo un caso che qua e là, e soprattutto alla fine di "Sirena", si affacci l'invocazione alla "piccola anima errabonda": essa è, come , noto, la traduzione del celebre incipit dell'imperatore Adriano, animula vagula blandula. Secondo la tradizione egli scrisse questa breve lirica in punto di morte, al momento, cioè, in cui si compiono tutte le scommesse della vita. Quale migliore simbolo dell'incertezza?

Animula vagula blandula
hospes comesque corporis:
quo nunc abibis? In loca
pallidula, rigida, nudula
nec, ut soles, dabis iocos!

Publius Aelius Adrianus



Andrea Salvini

lunedì 16 febbraio 2015

Nota di lettura su La luce dell'anima – Zeit los brennt dieses licht hier di Dieter Schlesak e Vivetta Valacca


Non è facile oggi articolare un'intera raccolta poetica sul tema dell'amore e riuscire a rimanere sempre al di sopra di ogni banalità. Lo sapeva Umberto Saba che in Amai ci ricordava come ciò che si scrive intorno all'amore, specie nella poesia, rischia di diventare trite parole. La rima fiore / amore è per lui e per noi, la più antica, difficile del mondo.
Eppure Dieter Schlesak e Vivetta Valacca sono riusciti a costruire un intera raccolta poetica sul tema dell'amore, o, meglio, sul dialogo ineffabile che l'amore riesce a far scaturire fra due sensibilità complementari.
Molte raccolte poetiche nei secoli, pensiamo al Canzoniere petrarchesco e a tutti quelli che ad esso sono seguiti nei secoli, raccontano le vicende di amori inappagati e tormentati: qui abbiamo il canto dell'amore realizzato, pienamente vissuto in un'ebbrezza appagante, non tanto e non solo dei sensi, quanto piuttosto dell'anima. Ci sembra quindi che l'archetipo di riferimento della raccolta sia piuttosto quello biblico del "Cantico dei Cantici". Così come il Libro biblico, tutta la raccolta è un invito reciproco e continuo alla gioia dell'amore, un cercarsi per viversi a vicenda.
Questa ricerca reciproca spazia praticamente su ogni possibile evento o sensazione dell'esperienza d'amore. Il momento più ricorrente ci sembra quello del superamento del limite, che possiamo esemplificare con due brevi brani, fra i molti che potremmo citare:

Non ci serve / sapere cosa c'è /al di là del tempo e dove eravamo / e dove siamo / insieme siamo stesi nella parola / abbandoniamoci ad amare quello che ci porta / il nostro noi sarà più ricco / di quello / che siamo stati prima (p. 39)

In me stessa / al mio sguardo muri / come frontiere  // in te / si apre / per me la porta delle stelle // L'eterno da sempre cercato si dona // esperienza viva / io tocco / con te il non‑tempo infinito presente (p. 73)

Superare il tempo e lo spazio, sconfiggere il limite proprio della nostra natura soggetta alla finitezza, è proprio la motivazione più profonda che spinge l'essere umano a vivere l'esperienza dell'amore senza egoismi, senza secondi fini che possano contaminarla: Lo cerchi ancora questo soffio / in te nessuna pesantezza, acqua cristallina e blu, / blu il vuoto del cielo. Cerca, cercati in questo / senza il tuo trapassare / sei libero, libero / come non mai, e puoi vederlo (p. 109)

questo mondo di Dio è DEL TUTTO / e del tutto costruito di luce altrimenti Nulla / è per sempre / Nulla / è salvato e scampato (Vivetta Valacca)
Kein Trost nur Liebe diese Gotteswelt ist Ganz / und ganz aus Licht gebaut sonst Nichts / und immer ist sie / über den Berg / über alle Berge (Dieter Schlesak) (p. 125)

Il dialogo d'amore di cui stiamo parlando si svolge sul terreno della poesia, una poesia dallo stile cristallino e sobrio, che mai si compiace di facili ambiguità sulla scorta di mode espressive oggi fin troppo correnti, che male imitano i grandi maestri dell'Ermetismo. È uno stile che vorremmo definire classico, anzi, di primo acchito, ci fa pensare al più celebre prototipo della poesia amorosa, ossia a Saffo, soprattutto per la spontaneità dello spunto dialogico che possiamo osservare in quel poco che di essa ci è rimasto. Ma un altro accostamento possibile è agli inizi della letteratura italiana, ossia allo Stilnovo. Il dialogo sull'amore era tipico del mondo degli Stilnovisti. Anch'essi si scambiavano in rima le proprie esperienze d'amore, imbastivano tenzoni poetiche sull'amore e lo spirito di tutti si elevava contemplando le preziose operazioni di Amore dentro ciascuno di loro. Lo stile stilnovista era accessibile a tutti, eppure prezioso e nitido, frutto di un incessante limae labor, una novità epocale per il mondo letterario dell'epoca.  Proprio questa ci pare la qualità complessiva dello stile di questa raccolta dei due poeti. Non dimentichiamo, infatti, che si tratta di una raccolta bilingue: una gradissima parte delle poesie della Valacca sono state tradotte da Dieter Schlesak in un tedesco altrettanto nitido e cristallino che fa da perfetto speculum all'italiano. Nella straordinaria consentaneità espressiva tra i due poeti, che può apprezzare anche chi ha una conoscenza solo essenziale del tedesco, troviamo il compimento della volontà dialogica sull'amore che abbiamo cercato di mettere in luce.

Andrea Salvini


mercoledì 21 gennaio 2015

La società del divertimento

Si dovrebbe essere assolutamente consapevoli che la realtà che ci circonda, con i suoi agi e disagi è il risultato, in alta percentuale, di precise scelte politiche. Se i giovani sono ormai da decenni coinvolti dall'industria del divertimento, fondata su discoteche, ristorazione alla moda, vacanze, smartphone, sesso, droghe e via dicendo, ciò è dovuto alle scelte politiche che sono state compiute a tutti i livelli in un passato ormai non più recente. La vera svolta, secondo noi, è venuta verso la fine degli anni Settanta, quando, per disinnescare la carica esplosiva delle contestazioni giovanili, è stata data mano libera a chi era pronto a proporre, o propinare, ai giovani miti e mode fatti di note e di illusioni. Quella è anche l'epoca dell'affermazione, su scala almeno continentale, della televisione commerciale e del calcio giocato praticamente ogni giorno della settimana a tutte le ore.
L'eccezionale forza conservatrice dei divertimenti di massa era stata già intuita da Erodoto nel V secolo a. C., molto prima che a Roma si praticasse la politica del panem et circenses. Lasciamo a lui la parola, premettendo qualche nota introduttiva. Siamo nel VI secolo a. C. Il regno di Lidia è caduto ed è stato annesso all'impero persiano. Ciro il Grande ha imposto come governatore Tàbalo, un suo fiduciario; poi ha fatto ritorno verso la Persia portando con sé il vecchio re della Lidia, Creso, che lo accompagnerà sempre come fidato consigliere. Ad un certo punto giunge la notizia che Pactie si è messo a capo di una rivolta dei Lidi contro Ciro, che a quel punto vorrebbe cancellare per sempre i Lidi dalla faccia della terra. Ciò che accade allora ce lo racconta Erodoto stesso: il consiglio che Creso fornisce a Ciro è davvero impressionante. Aggiungiamo, per comodità dei lettori, una nostra traduzione, che non ha alcuna pretesa qualitativa.


CLIV. [1] ὡς δὲ ἀπήλασε ὁ Κῦρος ἐκ τῶν Σαρδίων, τοὺς Λυδοὺς ἀπέστησε ὁ Πακτύης ἀπό τε Ταβάλου καὶ Κύρου, καταβὰς δὲ ἐπὶ θάλασσαν, ἅτε τὸν χρυσὸν ἔχων πάντα τὸν ἐκ τῶν Σαρδίων, ἐπικούρους τε ἐμισθοῦτο καὶ τοὺς ἐπιθαλασσίους ἀνθρώπους ἔπειθε σὺν ἑωυτῷ στρατεύεσθαι. ἐλάσας δὲ ἐπὶ τὰς Σάρδις ἐπολιόρκεε Τάβαλον ἀπεργμένον ἐν τῇ ἀκροπόλι.

CLV. [1] πυθόμενος δὲ κατ᾽ ὁδὸν ταῦτα ὁ Κῦρος εἶπε πρὸς Κροῖσον τάδε. «Κροῖσε, τί ἔσται τέλος τῶν γινομένων τούτων ἐμοί; οὐ παύσονται Λυδοί, ὡς οἴκασι, πρήγμάτα παρέχοντες καὶ αὐτοὶ ἔχοντες. φροντίζω μὴ ἄριστον ᾖ ἐξανδραποδίσασθαι σφέας. ὁμοίως γὰρ μοι νῦν γε φαίνομαι πεποιηκέναι ὡς εἴ τις πατέρα ἀποκτείνας τῶν παίδων αὐτοῦ φείσατο· [2] ὡς δὲ καὶ ἐγὼ Λυδῶν τὸν μὲν πλέον τι ἢ πατέρα ἐόντα σὲ λαβὼν ἄγω, αὐτοῖσι δὲ Λυδοῖσι τὴν πόλιν παρέδωκα, καὶ ἔπειτα θωμάζω εἰ μοι ἀπεστᾶσι.» ὃ μὲν δὴ τά περ ἐνόεε ἔλεγε, ὃ δ᾽ ἀμείβετο τοῖσιδε, δείσας μὴ ἀναστάτους ποιήσῃ τὰς Σάρδις. [3] «ὦ βασιλεῦ, τὰ μὲν οἰκότα εἴρηκας, σὺ μέντοι μὴ πάντα θυμῷ χρέο, μηδὲ πόλιν ἀρχαίην ἐξαναστήσῃς ἀναμάρτητον ἐοῦσαν καὶ τῶν πρότερον καὶ τῶν νῦν ἑστεώτων. τὰ μὲν γὰρ πρότερον ἐγώ τε ἔπρηξα καὶ ἐγὼ κεφαλῇ ἀναμάξας φέρω· τὰ δὲ νῦν παρεόντα Πακτύης γὰρ ἐστὶ ὁ ἀδικέων, τῷ σὺ ἐπέτρεψας Σάρδις, οὗτος δότω τοι δίκην. [4] Λυδοῖσι δὲ συγγνώμην ἔχων τάδε αὐτοῖσι ἐπίταξον, ὡς μήτε ἀποστέωσι μήτε δεινοί τοι ἔωσι· ἄπειπε μέν σφι πέμψας ὅπλα ἀρήια μὴ ἐκτῆσθαι, κέλευε δὲ σφέας κιθῶνάς τε ὑποδύνειν τοῖσι εἵμασι καὶ κοθόρνους ὑποδέεσθαι, πρόειπε δ᾽ αὐτοῖσι κιθαρίζειν τε καὶ ψάλλειν καὶ καπηλεύειν παιδεύειν τοὺς παῖδας. καὶ ταχέως σφέας ὦ βασιλεῦ γυναῖκας ἀντ᾽ ἀνδρῶν ὄψεαι γεγονότας, ὥστε οὐδὲν δεινοί τοι ἔσονται μὴ ἀποστέωσι.»

CLVI. [1] Κροῖσος μὲν δὴ ταῦτά οἱ ὑπετίθετο, αἱρετώτερα ταῦτα εὑρίσκων Λυδοῖσι ἢ ἀνδραποδισθέντας πρηθῆναι σφέας, ἐπιστάμενος ὅτι ἢν μὴ ἀξιόχρεον πρόφασιν προτείνῃ, οὐκ ἀναπείσει μιν μεταβουλεύσασθαι, ἀρρωδέων δὲ μὴ καὶ ὕστερον κοτὲ οἱ Λυδοί, ἢν τὸ παρεὸν ὑπεκδράμωσι, ἀποστάντες ἀπὸ τῶν Περσέων ἀπόλωνται. [2] Κῦρος δὲ ἡσθεὶς τῇ ὑποθήκῃ καὶ ὑπεὶς τῆς ὀργῆς ἔφη οἱ πείθεσθαι. καλέσας δὲ Μαζάρεα ἄνδρα Μῆδον, ταῦτά τέ οἱ ἐνετείλατο προειπεῖν Λυδοῖσι τὰ ὁ Κροῖσος ὑπετίθετο, καὶ πρὸς ἐξανδραποδίσασθαι τοὺς ἄλλους πάντας οἳ μετὰ Λυδῶν ἐπὶ Σάρδις ἐστρατεύσαντο, αὐτὸν δὲ Πακτύην πάντως ζῶντα ἀγαγεῖν παρ᾽ ἑωυτόν.



CLIV. Come Ciro si fu allontanato da Sardi, Pactie fece defezionare i Lidi da Ciro e da Tabalo e, dopo esser disceso al mare, poiché disponeva di tutto l'oro di Sardi, andava arruolando mercenari e cercava di convincere le genti rivierasche a compiere una spedizione insieme con lui. Spintosi fino a Sardi, assediava Tabalo che si era asserragliato sull'acropoli.

CLV. Ciro, venuto a conoscenza di questi fatti mentre si trovava in viaggio, si rivolse a Creso in questi termini: "Creso, quale conclusione ci sarà per me di questi avvenimenti? I Lidi non smetteranno, a quanto sembra, di darmi fastidi e di averne essi stessi. Sto meditando di ridurli in schiavitù. Infatti ora almeno mi sembra di aver fatto proprio come se avessi ucciso il padre e risparmiato i suoi figli. Così io, da una parte, ho preso prigioniero e porto con me te, che dei Lidi sei più di un padre, dall'altra ho consegnato agli stessi Lidi la loro città, e poi mi meraviglio se mi si rivoltano contro. L'uno appunto pensava e diceva queste cose, l'altro gli rispondeva in questi termini, temendo che distruggesse Sardi: "O Re, tu hai espresso il tuo pensiero, ma tu non abbandonarti completamente alla collera e non distruggere un'antica città che è incolpevole sia degli avvenimenti precedenti sia dell'attuale rivolta. Infatti io ho compiuto le azioni di prima e io le sto scontando con la mia testa, invece dei fatti presenti è colpevole Pactie, al quale tu avevi affidato Sardi: costui ti paghi il fio. Tu, usando clemenza verso i Lidi, ordina loro queste cose, affiché non ci sia pericolo che ti si ribellino: manda ambasciatori a proibire loro di possedere armi da guerra, comanda invece che indossino chitoni sotto i mantelli, che portino ai piedi alte calzature allacciate, ordina che insegnino ai figli a suonare la cetra, a danzare  e ad esercitare il commercio al minuto. E in breve tempo li vedrai, o Re, diventati donne da uomini che erano, cosicché non ci sarà più nessun pericolo che ti si ribellino".

CLI. Creso andava suggerendo a lui queste cose, trovando che era preferibile per i Lidi una tale soluzione anziché essere venduti schiavi, sapendo che se non gli avesse fatto una proposta valida non lo avrebbe convinto a cambiare le sue intenzioni, temendo che anche in futuro i Lidi, se fossero riusciti a sfuggire al castigo di quel momento, si sarebbero ribellati ai Persiani e sarebbero stati annientati. Ciro, ascoltato il consiglio e deposta l'ira, gli rispose che si era lasciato convincere. Chiamato il medo Mazare, lo incaricò di ordinare ai Lidi quello che Creso suggeriva e di condurre in ogni modo Pactie vivo al suo cospetto.
 

Erodoto, Storie, I, 154-156