domenica 30 marzo 2014


Intellettuali e dispotismo

[2] Legimus, cum Aruleno Rustico Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Helvidius laudati essent, capitale fuisse, neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saevitum, delegato triumviris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. Dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut vetus aetas vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio. Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere.

[3] Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerva Traianus, nec spem modo ac votum securitas publica, sed ipsius voti fiduciam ac robur adsumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur. (Tacito, Agricola, 2 -3)

In queste celebri righe poste quasi all'inizio dell'Agricola, Tacito ritrae in modo straordinario la situazione degli intellettuali che si trovano a vivere sotto un regime dispotico. Egli ha letto che Aruleno Rustico ed Erennio Senecione avevano osato elogiare nei loro scritti Trasea Peto ed Elvidio Prisco, epigoni della libertà repubblicana, ed erano stati condannati a morte (legimus ... capitale fuisse). Si era infierito anche contro i loro libri, che erano stati bruciati pubblicamente (neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saevitum, delegato triumviris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur). L'intento era stato quello di consumare in quel fuoco la parola del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza critica del genere umano (Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur). L'inquinamento delle coscienze ha dilagato: con la pratica delle delazioni era stata tolta anche la possibilità di esprimersi in normali colloqui privati (adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio).
I tempi poi cambiano: con un pizzico di piaggeria, Tacito annuncia che ora, finalmente, si torna a respirare (nunc demum redit animus): Nerva e Traiano stanno riportando lo Stato e la società romana a nuova vita, conciliando due situazioni un tempo incompatibili, il potere assoluto e la libertà (Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit, principatum ac libertatem). Tutto questo accade, però, assai lentamente, perché le cure sono più lente delle malattie (remedia tardiora sunt quam mala).
Qualche decennio prima di Tacito, Seneca ci addita la strada per sopravvivere conservando la propria dignità sotto un tiranno. Seneca contesta i consigli del filosofo Atenodoro, che riteneva fosse la cosa migliore, nei tempi difficili, ritirarsi immediatamente dalla vita pubblica e dedicarsi esclusivamente agli studi. A chi si ritira troppo in fretta può accadere come a quei soldati che abbandonano precipitosamente la posizione e rischiano di essere colpiti alle spalle: è meglio sempre arrendersi con le armi in pugno. Occorre quindi ritirarsi a poco a poco, senza perdere la propria dignità. Se poi davvero si perderà ogni possibilità di agire nel contesto civile, se diventerà pericoloso anche entrare nel Foro, se verrà imposto il silenzio si potranno sempre adempiere i doveri propri della natura umana (officia ciuis amisit: hominis exerceat).

IV. 1 Mihi, carissime Serene, nimis uidetur summisisse temporibus se Athenodorus, nimis cito refugisse. Nec ego negauerim aliquando cedendum, sed sensim relato gradu et saluis signis, salua militari dignitate: sanctiores tutioresque sunt hostibus suis qui in fidem cum armis ueniunt. 2 Hoc puto uirtuti faciendum studiosoque uirtutis: si praeualebit fortuna et praecidet agendi facultatem, non statim auersus inermisque fugiat, latebras quaerens, quasi ullus locus sit quo non possit fortuna persequi, sed parcius se inferat officiis et cum dilectu inueniat aliquid in quo utilis ciuitati sit. 3 Militare non licet: honores petat. Priuato uiuendum est: sit orator. Silentium indictum est: tacita aduocatione ciues iuuet. Periculosum etiam ingressu forum est: in domibus, in spectaculis, in conuiuiis bonum contubernalem, fidelem amicum, temperantem conuiuam agat. Officia ciuis amisit: hominis exerceat. (Seneca, De tranquillitate animi, IV, 1-3)


Andrea Salvini

sabato 22 marzo 2014


Antico e contemporaneo (omaggio a Valeria Serofilli)

Ci prendiamo una pausa distensiva, per ricordare che il mondo classico può essere rivisitato con straordinaria leggerezza poetica. Abbiamo seguito Valeria Serofilli fin dai suoi esordi, ossia dal 2001, quando pubblicò la sua prima raccolta, Acini d'anima, con alcuni saggi che essa ha inserito nel suo sito (www.valeriaserofilli.it).
Da quel momento essa ha dato vita ad una preziosa opera di produzione poetica, ma anche di promozione culturale, realizzando nello storico Caffè dell'Ussero di Pisa una lunga serie di presentazioni e serate letterarie. A queste si legano altre iniziative editoriali e culturali tra cui il Premio Letterario Nazionale Astrolabio, per le quali rimandiamo sempre al sito dell'Autrice.
Questa vera maestra del ritmo, dell'allitterazione e della iunctura che genera sovrasenso e nuovo senso, ha saputo rivitalizzare con i suoi numeri l'ironia e la malinconia della visione classica del mondo e dell'uomo nel suo Fedro rivisitato (Bastogi, Foggia, 2004), da cui trascriviamo alcuni brani.

Andrea Salvini


Chi disprezza compra
(Fedro, IV, 3)

Colei non fare
che disse “Tanto è acerba”
cui grappolo
troppo pingue
franò in testa,
ché se il tuo debol salto
uva non coglie né tocca,
ammetti il limite
e di non esser pronto
all’acino non dar colpa!


La riconoscenza del lupo
(Fedro, I, 8)

Quale più gradita ricompensa
per la gru dal lungo collo
dell’aver ancor la testa
dopo aver al lupo tolto
dall’ingorda gola l’osso?


La rana e il bue
(Fedro, I, 24)

“Il troppo stroppia” e
lo sa perfin ranocchia
che per farsi vacca
la pelle tira e strappa
finchè non scoppia!

L’anfora I

Sprigiona il coccio
d’effluvio il falerno
che assapora / la vecchia
cui già
nostalgico riso / squarcia
ruga
di sopite estasi / in fuga.


L’anfora II

Per vecchiezza
valor non si perde
ma quando dei desideri
è tratto il dente,
il più crudele degli affanni
ricordarsi è
dei felici anni!

(Fedro, III, 1)

domenica 16 marzo 2014


Indisciplina a scuola, ieri e oggi.

Vtinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. VII. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; VIII. nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt. (Quintiliano, Institutio oratoria, I, 2, VI e sgg.)

A chi vive quotidianamente la cosiddetta emergenza educativa, argomento di cui oggi si parla poco, abbiamo dedicato il brano di Quintiliano in apertura. Ci sembra assai eloquente, senza eccessivi commenti. Speriamo possa far riflettere chi si è comportato quasi sempre da amico e poco da genitore nei confronti del proprio figlio adolescente, ribelle e sempre pronto a rispondere con parolacce.
Secondo Quintiliano, il maggiore pedagogista dell'Antichità, l'educazione mollis, che viene chiamata "indulgenza" fiacca ogni vigore della mente e del corpo dei bambini (Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit). Siamo lieti se essi diranno qualcosa di alquanto sconveniente: parole che non si devono permettere neanche ai cinedi di Alessandria, le accogliamo con un sorriso e con un bacio (Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus). I bambini vedono le nostre amanti, i nostri concubini, ogni banchetto risuona di canzoni oscene: essi stanno a guardare cose vegognose a dirsi (nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur). Imparano certe cose prima di sapere che sono vizi, poi li portano dentro la scuola... con i risultati che ognuno può immaginare. 
Circa tre secoli dopo Quintiliano, sant'Agostino ci fa intravedere qualche altro aspetto della scuola dei suoi tempi, certo non molto incoraggiante. Egli si reca a Roma spinto soprattutto dal desiderio di trovare studenti più quieti e motivati, il sogno che spinge ogni insegnante a cercare di cambiare scuola quando sente su di sé il peso di una fatica spesso ingrata: a Cartagine aveva dovuto subire intemperanze di ogni sorta da parte dei ragazzi, perfino l'essere costretto a far lezione senza la certezza di ricevere una paga. Si noti la conclusione: un insegnante di solito non ha mai fatto ciò a cui si abbandonano i suoi studenti più turbolenti, ma è costretto a subirlo nell'impotenza, per evitare conseguenze peggiori. Agostino interpreta, e deplora, il comportamento degli studenti alla luce della sua fede ritrovata: quanti insegnanti possono ancora fare appello solo ad essa nella scuola contemporanea?  

Non ideo Romam pergere volui, quod maiores quaestus maiorque mihi dignitas ab amicis, qui hoc suadebant, promittebatur (quamquam et ista ducebant animum tunc meum), sed illa erat causa maxima et paene sola, quod audiebam quietius ibi studere adulescentes et ordinatiore disciplinae cohercitione sedari, ne in eius scholam quo magistro non utuntur passim et proterve inruant, nec eos admitti omnino nisi ille permiserit. contra apud Carthaginem foeda est et intemperans licentia scholasticorum. inrumpunt impudenter et prope furiosa fronte perturbant ordinem quem quisque discipulis ad proficiendum instituerit. multa iniuriosa faciunt mira hebetudine, et punienda legibus nisi consuetudo patrona sit, hoc miseriores eos ostendens, quo iam quasi liceat faciunt quod per tuam aeternam legem numquam licebit, et impune se facere arbitrantur, cum ipsa faciendi caecitate puniantur et incomparabiliter patiantur peiora quam faciunt. ergo quos mores cum studerem meos esse nolui, eos cum docerem cogebar perpeti alienos. et ideo placebat ire ubi talia non fieri omnes qui noverant indicabant.

A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l'unica fu un'altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l'eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l'ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un'azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. (S. Agostino, Confessiones, V, 8, 14; traduzione dal sito www.augustinus.it)

Andrea Salvini

lunedì 10 marzo 2014


Disabili nell'antichità


...Τόδε δ' α θαμά μ' χει πς
ποτε πς ποτ' μφικλήτων
οθίων μόνος κλύων, πς
ρα πανδάκρυτον οτω
βιοτν κατέσχεν·

ν' ατς ν πρόσουρος, οκ χων βάσιν,
οδέ τιν' γχώρων κακογείτονα,
παρ ' στόνον ντίτυπον
τν βαρυβρτ' ποκλαύσειεν αματηρόν

Coro

...Ed ancora questo mi sorprende: come mai,
come mai egli, ascoltando nella sua solitudine
il fragore dei flutti all'intorno,
come poté sostenere una vita
così colma di lacrime:

qui dov'era il solo compagno di se stesso,
impedito nel muoversi,
senza nessuno del posto
che lo assistesse nella sventura
e nel quale potesse trovare eco,
sfogando il gemito per la vorace
sanguinolenta piaga...

(Sofocle, Filottete, vv. 686-695)

Non è facile parlare di che cosa potesse significare nel mondo antico essere invalidi, o, come si dice oggi, diversamente abili, che si abbrevia in "disabili". Ci aiuta il testo di cui abbiamo riportato qualche verso in apertura, ossia il Filottete di Sofocle. Fra gli innumerevoli significati che oggi possiamo reperire in questa tragedia e che già molti critici hanno messo in risalto c'è senza dubbio la rappresentazione del dramma della disabilità, vissuto per giunta nella solitudine e nell'abbandono più totali. Filottete è partito con Agamennone e gli altri capi greci per la guerra di Troia, ma durante la sosta all'isola di Lemno viene morso da un serpente e contrae una misteriosa forma di cancrena ad un piede: non può più camminare speditamente, né tantomeno combattere; per di più dalla sua ulcera si sprigiona un fetore insopportabile per tutti coloro che gli stanno intorno. I capi greci allora lo abbandonano sull'isola lasciandogli solo il suo infallibile arco, col quale può, con grande fatica, procurarsi il cibo per sopravvivere.  Filottete è solo, oltre che malato. E' la solitudine, forse più ancora del dolore fisico a tormentarlo. I capi greci tornano da lui solo quando hanno saputo che solo con il suo arco Troia può essere conquistata: su questo, come noto, si svolge la tragedia. Negli atteggiamenti di Odisseo e Neottolemo, gli altri due personaggi della tragedia, scorgiamo tutte le possibili reazioni di fronte all'invalido, che oscillano fra la pietà e la ripugnanza, il cinico approfittarsi e il desiderio di soccorrere.
In un testo latino, un brano dalle Satire di Orazio, possiamo poi gettare uno sguardo sulla vita quotidiana della famiglia dove si trovava un figlio disabile. Orazio sta esortando a dissimulare i difetti degli amici, così come un padre di famiglia cerca di mascherare con le parole i difetti di un figlio disabile:


vellem in amicitia sic erraremus et isti
errori nomen virtus posuisset honestum.
ac pater ut gnati, sic nos debemus amici
siquod sit vitium non fastidire. strabonem
appellat paetum pater, et pullum, male parvos               45
sicui filius est, ut abortivus fuit olim
Sisyphus; hunc varum distortis cruribus, illum
balbutit scaurum pravis fultum male talis. (Orazio, Sermones, III, 41-48)

Un padre chiama "sbircino" (strabo) il figlio guercio; lo chiama "pulcino" (pullum) se è affetto da nanismo, lo definisce a mezza bocca (balbutit) "zoppetto" (scaurus, nobile cognome romano tra l'altro) se è completamente deforme e non si regge neanche in piedi. Si intravede dietro questi versi la pena del vivere di molte famiglie, anche più di venti secoli fa, e non si può non restare commossi.

Andrea Salvini

sabato 1 marzo 2014


Andarsene, ma dove?


Hic tunc Umbricius 'quando artibus' inquit 'honestis
nullus in urbe locus, nulla emolumenta laborum,
res hodie minor est here quam fuit atque eadem cras
deteret exiguis aliquid, proponimus illuc
ire, fatigatas ubi Daedalus exuit alas,                                                  25
dum nova canities, dum prima et recta senectus,
dum superest Lachesi quod torqueat et pedibus me
porto meis nullo dextram subeunte bacillo.
cedamus patria. vivant Artorius istic
et Catulus, maneant qui nigrum in candida vertunt,                   30
quis facile est aedem conducere, flumina, portus,
siccandam eluviem, portandum ad busta cadaver,
et praebere caput domina venale sub hasta. (Giovenale, Satura III, vv. 21-33)


Umbricio se ne va e saluta l'amico Giovenale sotto l'acquedotto della Porta Capena. A Roma non c'è spazio per le arti oneste, nessuna ricompensa per per le fatiche (artibus ... honestis / nullus in urbe locus, nulla emolumenta laborum): è meglio andarsene, finché Lachesi ha ancora qualcosa da filare, ossia finché la vita ha ancora qualcosa da concederci, la canizie è recente e non serve ancora il bastone per camminare (dum superest Lachesi quod torqueat et pedibus me / porto meis nullo dextram subeunte bacillo): cedamus patria, allontaniamoci dalla patria, dice Giovenale. Possono restare, e ovviamente prosperare, solo i disonesti, quelli che cambiano il nero in bianco, come un Catulo ed un Artorio: vivant Artorius istic / et Catulus, maneant qui nigrum in candida vertunt.
Umbricio si accontentava di un luogo appartato, in campagna, dove Dedalo si fosse spogliato delle sue ali, ormai stanche e inutili (fatigatas ubi Daedalus exuit alas). Oggi la Storia sembra ripetersi, ma in modo più saggio: i giovani migliori non aspettano di arrivare alle soglie della vecchiaia, dopo aver speso i propri anni migliori lottando invano contro un sistema che sfrutta e umilia: se ne vanno, disgustati dal fatto che le loro legittime ambizioni siano troppo spesso frustrate da "precedenze" accordate ad altri meno meritevoli, ma più disposti al compromesso, oppure a chi fin dalla nascita è stato predestinato ad insediarsi in qualche posto di rilievo nella società.
Chi, come noi, giovane non è più e magari ha dovuto subire in anni diversi un simile trattamento, può domandarsi in base a quale inganno, o autoinganno, ha contribuito con il proprio voto, o la propria acquiescenza insonnolita, a che si generasse la situazione attuale...

Andrea Salvini