lunedì 10 marzo 2014


Disabili nell'antichità


...Τόδε δ' α θαμά μ' χει πς
ποτε πς ποτ' μφικλήτων
οθίων μόνος κλύων, πς
ρα πανδάκρυτον οτω
βιοτν κατέσχεν·

ν' ατς ν πρόσουρος, οκ χων βάσιν,
οδέ τιν' γχώρων κακογείτονα,
παρ ' στόνον ντίτυπον
τν βαρυβρτ' ποκλαύσειεν αματηρόν

Coro

...Ed ancora questo mi sorprende: come mai,
come mai egli, ascoltando nella sua solitudine
il fragore dei flutti all'intorno,
come poté sostenere una vita
così colma di lacrime:

qui dov'era il solo compagno di se stesso,
impedito nel muoversi,
senza nessuno del posto
che lo assistesse nella sventura
e nel quale potesse trovare eco,
sfogando il gemito per la vorace
sanguinolenta piaga...

(Sofocle, Filottete, vv. 686-695)

Non è facile parlare di che cosa potesse significare nel mondo antico essere invalidi, o, come si dice oggi, diversamente abili, che si abbrevia in "disabili". Ci aiuta il testo di cui abbiamo riportato qualche verso in apertura, ossia il Filottete di Sofocle. Fra gli innumerevoli significati che oggi possiamo reperire in questa tragedia e che già molti critici hanno messo in risalto c'è senza dubbio la rappresentazione del dramma della disabilità, vissuto per giunta nella solitudine e nell'abbandono più totali. Filottete è partito con Agamennone e gli altri capi greci per la guerra di Troia, ma durante la sosta all'isola di Lemno viene morso da un serpente e contrae una misteriosa forma di cancrena ad un piede: non può più camminare speditamente, né tantomeno combattere; per di più dalla sua ulcera si sprigiona un fetore insopportabile per tutti coloro che gli stanno intorno. I capi greci allora lo abbandonano sull'isola lasciandogli solo il suo infallibile arco, col quale può, con grande fatica, procurarsi il cibo per sopravvivere.  Filottete è solo, oltre che malato. E' la solitudine, forse più ancora del dolore fisico a tormentarlo. I capi greci tornano da lui solo quando hanno saputo che solo con il suo arco Troia può essere conquistata: su questo, come noto, si svolge la tragedia. Negli atteggiamenti di Odisseo e Neottolemo, gli altri due personaggi della tragedia, scorgiamo tutte le possibili reazioni di fronte all'invalido, che oscillano fra la pietà e la ripugnanza, il cinico approfittarsi e il desiderio di soccorrere.
In un testo latino, un brano dalle Satire di Orazio, possiamo poi gettare uno sguardo sulla vita quotidiana della famiglia dove si trovava un figlio disabile. Orazio sta esortando a dissimulare i difetti degli amici, così come un padre di famiglia cerca di mascherare con le parole i difetti di un figlio disabile:


vellem in amicitia sic erraremus et isti
errori nomen virtus posuisset honestum.
ac pater ut gnati, sic nos debemus amici
siquod sit vitium non fastidire. strabonem
appellat paetum pater, et pullum, male parvos               45
sicui filius est, ut abortivus fuit olim
Sisyphus; hunc varum distortis cruribus, illum
balbutit scaurum pravis fultum male talis. (Orazio, Sermones, III, 41-48)

Un padre chiama "sbircino" (strabo) il figlio guercio; lo chiama "pulcino" (pullum) se è affetto da nanismo, lo definisce a mezza bocca (balbutit) "zoppetto" (scaurus, nobile cognome romano tra l'altro) se è completamente deforme e non si regge neanche in piedi. Si intravede dietro questi versi la pena del vivere di molte famiglie, anche più di venti secoli fa, e non si può non restare commossi.

Andrea Salvini

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