domenica 16 marzo 2014


Indisciplina a scuola, ieri e oggi.

Vtinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. VII. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; VIII. nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt. (Quintiliano, Institutio oratoria, I, 2, VI e sgg.)

A chi vive quotidianamente la cosiddetta emergenza educativa, argomento di cui oggi si parla poco, abbiamo dedicato il brano di Quintiliano in apertura. Ci sembra assai eloquente, senza eccessivi commenti. Speriamo possa far riflettere chi si è comportato quasi sempre da amico e poco da genitore nei confronti del proprio figlio adolescente, ribelle e sempre pronto a rispondere con parolacce.
Secondo Quintiliano, il maggiore pedagogista dell'Antichità, l'educazione mollis, che viene chiamata "indulgenza" fiacca ogni vigore della mente e del corpo dei bambini (Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit). Siamo lieti se essi diranno qualcosa di alquanto sconveniente: parole che non si devono permettere neanche ai cinedi di Alessandria, le accogliamo con un sorriso e con un bacio (Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus). I bambini vedono le nostre amanti, i nostri concubini, ogni banchetto risuona di canzoni oscene: essi stanno a guardare cose vegognose a dirsi (nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur). Imparano certe cose prima di sapere che sono vizi, poi li portano dentro la scuola... con i risultati che ognuno può immaginare. 
Circa tre secoli dopo Quintiliano, sant'Agostino ci fa intravedere qualche altro aspetto della scuola dei suoi tempi, certo non molto incoraggiante. Egli si reca a Roma spinto soprattutto dal desiderio di trovare studenti più quieti e motivati, il sogno che spinge ogni insegnante a cercare di cambiare scuola quando sente su di sé il peso di una fatica spesso ingrata: a Cartagine aveva dovuto subire intemperanze di ogni sorta da parte dei ragazzi, perfino l'essere costretto a far lezione senza la certezza di ricevere una paga. Si noti la conclusione: un insegnante di solito non ha mai fatto ciò a cui si abbandonano i suoi studenti più turbolenti, ma è costretto a subirlo nell'impotenza, per evitare conseguenze peggiori. Agostino interpreta, e deplora, il comportamento degli studenti alla luce della sua fede ritrovata: quanti insegnanti possono ancora fare appello solo ad essa nella scuola contemporanea?  

Non ideo Romam pergere volui, quod maiores quaestus maiorque mihi dignitas ab amicis, qui hoc suadebant, promittebatur (quamquam et ista ducebant animum tunc meum), sed illa erat causa maxima et paene sola, quod audiebam quietius ibi studere adulescentes et ordinatiore disciplinae cohercitione sedari, ne in eius scholam quo magistro non utuntur passim et proterve inruant, nec eos admitti omnino nisi ille permiserit. contra apud Carthaginem foeda est et intemperans licentia scholasticorum. inrumpunt impudenter et prope furiosa fronte perturbant ordinem quem quisque discipulis ad proficiendum instituerit. multa iniuriosa faciunt mira hebetudine, et punienda legibus nisi consuetudo patrona sit, hoc miseriores eos ostendens, quo iam quasi liceat faciunt quod per tuam aeternam legem numquam licebit, et impune se facere arbitrantur, cum ipsa faciendi caecitate puniantur et incomparabiliter patiantur peiora quam faciunt. ergo quos mores cum studerem meos esse nolui, eos cum docerem cogebar perpeti alienos. et ideo placebat ire ubi talia non fieri omnes qui noverant indicabant.

A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l'unica fu un'altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l'eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l'ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un'azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. (S. Agostino, Confessiones, V, 8, 14; traduzione dal sito www.augustinus.it)

Andrea Salvini

Nessun commento:

Posta un commento